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Volto autore del libro Autenticità

Autenticità sul lavoro, Mercuri (HR Leader): “Porta vantaggi economici e valore alle organizzazioni”

Le imprese più evolute puntano sull’autenticità delle proprie persone per crescere, ma come esprimerla ed è davvero possibile essere completamente se stessi sul posto di lavoro?

Si fa un gran parlare ultimamente dell’importanza di essere sé stessi e di coltivare la propria unicità, ma si può essere veramente autentici sul lavoro? E come va intesa l’autenticità in azienda? Il mondo del lavoro ha, infatti, delle regole, alcune anche molto discutibili, altre funzionali a far convivere un insieme di persone, competenze, ruoli e obiettivi.

Sempre più organizzazioni hanno iniziato a comprendere che creare le condizioni affinché le persone possano essere loro stesse ha un impatto positivo sulla motivazione, sulla creatività, sulla collaborazione, sulla fiducia, sull’engagement, e di conseguenza sui risultati aziendali.

Ma come coltivare ed esprimere autenticità sul lavoro? Abbiamo cercato di capirne di più con Pino Mercuri, HR Leader che ha realizzato moderne strategie HR per aziende note a livello internazionale ed è l’autore del volume “Autenticità” per la collana “Voci del lavoro nuovo” di FrancoAngeli.

Iniziamo questa intervista con la più classica delle domande, ma che è indispensabile per poi fare delle riflessioni in merito: che definizione possiamo dare di autenticità nel lavoro?

Questo è un punto molto interessante che io ho cercato di sviluppare nel testo. La mia tesi è che l’autenticità preveda il raggiungere una versione migliore di sé stessi in ambito lavorativo, partendo dal presupposto che un percorso di crescita deve necessariamente avere tutta una serie di stimoli, ispirazioni, spunti, impegni che poi consentono di essere qualcosa di diverso e di migliore.

Aggiungo che l’autenticità deve essere funzionale al contesto, quindi, è necessario fare del bridging tra quello che sono io e quello che riesco a fare nel contesto di riferimento.

In sostanza i temi centrali sono due. Il primo è che “autenticità” è un concetto dinamico, quindi si diventa se stessi, non si è se stessi. Il secondo è che il diventare sé stessi deve essere deliberato, considerando il contesto di riferimento, altrimenti si rischia di essere un limite invece di un’opportunità.

Alla luce di questa descrizione, si può essere completamente autentici sul lavoro?

È proprio questo il punto. Quando sostengo che questa scelta di autenticità deve essere deliberata, intendo dire che c’è la necessità di un percorso di approfondimento e di accettazione. L’autenticità non può essere non filtrata perché altrimenti rischiamo di diventare naif nell’approccio.

Sappiamo bene, infatti, che le organizzazioni vivono di riti, rituali, maschere e rappresentazioni, costruite perché le aziende sono disegnate per raggiungere i risultati che si sono prefissate. E allora che cosa possiamo fare? Possiamo fare un percorso di affermazione progressiva, cercando di capire qual è il contesto di riferimento e se in quel contesto siamo nelle condizioni di fare questo bridging.

Ci sono contesti che non lo consentono affatto e sta a noi capire se questa condizione può essere accettabile oppure no perché, se devo rinunciare a una parte importante e significativa dell’essere me stesso diventa molto controproducente per me e rischioso per l’organizzazione stessa.

Rischiosa perché le organizzazioni sono le prime ad avere interesse che venga fatto questo percorso per una semplice ragione: perché ne ottengono un ritorno di tipo economico che alcune realtà hanno cominciato a tracciare e anche a quantificare.

Se sono me stesso riesco a dare un boost di motivazione e di impegno che poi alla fine produrrà un risultato economico per la mia azienda. Questo ormai è un paradigma abbastanza accettato dalle organizzazioni più evolute che infatti ne fanno un tema centrale.

In considerazione del contesto italiano, composto soprattutto da PMI basate su modelli di gestione del personale tradizionali, sono pronte le nostre aziende ad avere al loro interno persone autentiche e che quindi hanno comportamenti meno standardizzati?

Le realtà più “a prova di futuro” lo stanno facendo già da anni. L’Italia di solito arriva un po’ dopo rispetto alle grandi tendenze che nascono negli Stati Uniti o in altre parti del mondo, ma ci stiamo arrivando.

Nel testo riporto alcuni esempi di aziende che hanno fatto e stanno facendo questo percorso e che stanno ottenendo dei risultati che confermano la bontà di questa strada.

Tornando alla domanda, non tutte le aziende sono pronte, ma quelle più evolute e sensibili a questo tema si sono già attivate e stanno cominciando a percepire il valore in un percorso del genere.

Ci sono dei rischi nell’essere autentici e nel far entrare l’autenticità nell’azienda?

Assolutamente sì. Tanto è vero che è importante cercare di guidare giorno per giorno, azione per azione, contesto per contesto, la propria autenticità o l’autenticità delle persone che lavorano in azienda. Se percepiamo l’essere autentico, come l’essere non filtrato allora i rischi sono altissimi.

Vale sempre la pena di mantenere l’equilibrio tra quello che si può accettare e quello che è accettato nel contesto organizzativo.

Poi fortunatamente le persone cambiano le organizzazioni e quello che non è accettato oggi, può esserlo a distanza di sei mesi o un anno. Sta proprio in questo la grande scommessa: cercare di portare il cambiamento con piccole azioni quotidiane in maniera tale che nel medio periodo e nel lungo periodo l’autenticità sia sempre più accettata e che le organizzazioni ne siano sempre più consapevoli.

Siamo la società dell’immagine, sui social raccontiamo tanti aspetti della nostra vita, non sempre però quel che vediamo o facciamo vedere è autentico. Questo pone un grosso problema di autenticità. Come si può essere autentici in un’epoca in cui dare una certa immagine di noi stessi è così importante? Si può imparare a essere autentici?

Io credo che l’autenticità si possa allenare, difficilmente la si può apprendere con le metodologie tradizionali. Non mi immagino un corso di formazione sull’essere se stessi, lo vedo come un muscolo che se esercitato può aiutarci a migliorare.

Si può pensare e progettare un allenamento che ci metta nelle condizioni, giorno dopo giorno, di fare un passo in più di strada verso la consapevolezza di noi stessi. Possiamo praticare e di allenare la nostra capacità di essere autentici.

Nel libro ci sono degli spunti che possono aiutarci in questo percorso e c’è un test che è stato sviluppato da uno psicologo del lavoro, Massimiliano Aramini, che fornisce utili riflessioni su questo argomento.

L’autenticità aiuta a migliorare la fiducia e la comunicazione sul lavoro?

Assolutamente sì, è un potenziatore di relazioni. Dall’autenticità scaturiscono rapporti più veri, fiducia, benessere psicologico, sicurezza psicologica.

Se ho relazioni più sane, ho tutta una serie di benefici che vanno dal campo della condivisione e della comunicazione all’ambito operativo, proprio perché l’autenticità migliora la fiducia e affidarsi a fidarsi vuol dire anche costruire processi più veloci e più efficienti.

Quale consiglio daresti a una persona che si trova a dover gestire la propria autenticità sul lavoro e quale all’imprenditore o il manager che deve stimolare l’autenticità nell’organizzazione?

Per il lavoratore il consiglio è di cercare di capire come fare bridging tra quello che è lo stato attuale e lo stato desiderato futuro e come può contribuire a questo percorso di evoluzione, in modo da non essere da un lato troppo prudente e dall’altro troppo aggressivo, rimanendo, quindi, in quell’area in cui può aiutare a favorire un cambiamento.

A livello di management e imprenditoriale invece direi una cosa molto semplice che è quella di cominciare a trattare i dipendenti come persone. Sembra banale, ma non lo è. Se ci si mette in questo angolo di visuale ci si rende conto che è più facile di quello che potrebbe sembrare. Se si mette da parte la maschera, la rappresentazione, il teatro, il palco e si cerca di essere più attenti a quello che è il portato di esperienze, competenze e desiderata delle persone diventa più semplice evolversi.

Per riuscirci servono un pizzico di umiltà ma soprattutto un pizzico di comprensione del fatto che in azienda portiamo noi stessi, con le nostre paure, con i nostri desideri, con le nostre ambizioni, con tutto ciò che è scaturisce delle nostre esperienze e questo sicuramente ci rende unici e da scoprire.

Se si riescono a mettere tutte le persone in condizione di essere autenticamente loro stesse, si sblocca un potenziale importantissimo per l’organizzazione.

Per farlo è necessario rivoluzionare il concetto tradizionale di leader e di leadership?

Sì, se pensiamo al modello “commando e controllo”, stiamo parlando di una leadership che ormai è sempre più in crisi. Ha mostrato tutti i suoi limiti in un contesto digitalizzato, in trasformazione e fortemente competitivo, come quello attuale.

Se non è in grado di interpretare la leadership in maniera contemporanea, moderna, meno basata su comando e controllo, più orientata all’ascolto e alla vicinanza empatica, l’organizzazione perde delle enormi opportunità.

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