Brand Specialist e Founder di Banana Splint, Danilo Spanu non risparmia critiche al mondo del lavoro attraverso post ironici e con “Furbes”, una copertina dove professionisti sempre diversi non le mandano a dire su aziende con richieste assurde e annunci di lavoro al limite del ridicolo. Gli abbiamo chiesto quando il branding e il personal branding riescono a essere davvero efficaci, scoprendo che c’entra anche Marlon Brando…
Danilo, i tuoi post e freddure sul mondo del lavoro spopolano su Linkedin, come il branding e la gestione delle risorse umane vanno a braccetto?
Parlo di lavoro e risorse umane dal punto di vista del branding. Io non mi occupo di HR, ma come dico spesso, ho anche creato l’hashtag, #tuttofabranding, perché è proprio così.
Nel momento in cui dici una sciocchezza in un annuncio di lavoro o nelle attività branding, basta davvero poco per avere un danno di immagine. Con i social il rischio che poi le persone ripostano l’annuncio è davvero un attimo.
Bisogna fare molta attenzione a quello che si scrive e a come si comunica.
Le aziende italiane preparate a fare branding?
No, per un motivo semplicissimo: la maggior parte delle società italiane sono piccole e medie imprese, se non addirittura micro, per cui spesso chi scrive gli annunci di lavoro è la segretaria che risponde al telefono e che prepara slide in PowerPoint per le presentazioni e alimenta database in Word.
Purtroppo in Italia non abbiamo ancora una forte cultura del branding e chi lo fa talvolta è un autodidatta, che procede a tentativi, magari fa errori e poi corregge il tiro, ma la formazione è indispensabile, non ci si può improvvisare.
Chiamo gli improvvisati i “taffiani” ovvero quelli che pensano che siccome Taffo ha una comunicazione di successo, allora basta imitare Taffo per ottenere gli stessi risultati.
Invece non basta fare i simpatici, non funziona per tutti, anche perché di Taffo ce n’è già uno e quindi il massimo che potrai ottenere come risultato è arrivare secondo.
Poi spesso si parla di multicanalità, ma attenzione non dobbiamo essere multicanale ma omnicanale. Sono due concetti totalmente differenti. Multicanalità significa che essere presente su tutti i social in modo random, hai presente quando si spargono i coriandoli a carnevale? Invece l’omnicanalità chiede che un’azienda o una persona sia sempre se stessa ovunque, che sia su LinkedIn o Instagram o TikTok, come per email, sul sito al telefono e via dicendo.
Si tratta di essere fedeli a se stessi. Non è che siccome su TikTok va bene se faccio il ragazzino e poi su linkedin devo essere inamidato. Non funziona così, la mia comunicazione deve essere sempre riconoscibile. Poi, certo, ogni piattaforma ha le sue regole e le sue dinamiche che bisogna conoscere. Ecco perché oggi secondo me non esiste più la figura del social media manager, ma quella del TikTok specialist, dell’Instagram special, del Linkedin special e via dicendo.
Non sorprende che siamo ancora rimasti a tante persone e aziende che nelle mail scrivono “Cordiali saluti” o usano una serie di espressioni ormai obsolete e anonime dimostrando di avere scarsa conoscenza in materia di comunicazione e linguaggio.
Sì, è un problema diffuso e dettato proprio dalla digitalizzazione che tanto ostentiamo ed acclamiamo, ma che in realtà è stata la rovina della maggior parte delle aziende italiane perché il digitale, con tutti i suoi strumenti fantastici, ha dato l’illusione alle persone di poter fare qualunque cosa, di poter gestire qualunque cosa.
Al tempo stesso sono ormai innumerevoli gli annunci di lavoro che prevedono che il candidato sappia fare 7-8 cose diverse. Deve saper fare tutto, avere tutta una serie di competenze, ma avere 1-2 anni di esperienza, non di più, perché viene preso in apprendistato o magari si cerca uno stagista con 5 anni di esperienza.
Come è nato Furbes?
Avevo in cantiere l’idea da sei mesi, anzi non solo l’idea ma avevo già predisposto il mio calendario editoriale con il primo post con la cover di Furbes, il numero 1 con la mia faccia, e i testi pronti. Mi è bastato cliccare su invio.
Furbes fa il verso a Forbes perché non ho mai creduto alle celebrazioni a quelle classifiche tipo i top under 30 più influenti e simili. Tante persone non sanno che si tratta di operazioni di commerciali.
Volevo fare qualcosa contro questo sistema dove sul lavoro si vivono esperienze assurde. Quando leggiamo un annuncio ridicolo, tutti siamo pronti a criticare ma poi non si fa niente, per non parlare del precariato e di altre storture.
Mi sono chiesto cosa potessi fare per smuovere un po’ le acque. Ho pensato che il modo migliore per raccontare cose scomode senza che nessuno si offenda è usare l’ironia. Con l’ironia si può aprire qualunque porta.
Su Furbes in cover vengono riportati tutti quei piccoli grandi drammi del quotidiano legati a una professione che magari si conosce solo per sentito dire, non nel dettaglio. Come? Dando la possibilità a professionisti veri e autorevoli di far arrivare messaggi forti e chiari in poche righe, in modo ironico, ma senza mandarle a dire.
Veniamo invece al personal branding, secondo te cosa è veramente efficace?
Bella domanda. Si possono percorrere due strade: quella breve e quella lunga. Quella breve sembra la più semplice e quella che ti fa avere i risultati subito. Quella lunga prevede che quando la imbocchi non arrivi mai.
Pensa ai blog, oltre il 90% di quelli che vengono aperti poi chiudono dopo un anno perché mancano la lungimiranza e la strategia.
La strada breve è quella che solletica tutti, sembra facile, ma la verità è che nasconde sempre un’insidia e prima o poi se non hai le competenze cade il castello di carte.
La strada lunga costa sudore, fatica e olio di gomito. Prima di tutto c’è la fase di ascolto per capire cosa funziona e perché funziona o cosa non funziona e perché, dopodiché servono le competenze, è importante essere un bravo professionista, non necessariamente il migliore, ma devi saper fare quello che dici di fare.
Questo è l’unico requisito tecnico perché per il resto è tutta questione di strategia, ovvero di avere un’idea, una visione che ti permetta di capire sempre qual è il tuo obiettivo, il tuo punto di arrivo.
La strategia è la bussola che ti permette di saperti adattare durante il tuo percorso, che difficilmente sarà tutto dritto, e che ti consente di avere sempre chiaro dove vuoi arrivare.
Altri aspetti fondamentali sono la trasparenza e i valori.
Gli obiettivi della comunicazione possono cambiare, ma i valori non cambiano mai. Nel momento in cui si decide di cambiare uno dei valori fondanti, sto facendo un rebranding, sto cambiando il brand o il personal brand, non sono più quello di prima.
Il miglior brand è quello che parte ed è il prolungamento dell’avambraccio del suo creatore. Se il creatore è una persona affidabile e seria che ha chiaro i suoi valori, può comunicarli in modo efficace.
La trasparenza è assolutamente fondamentale in questo processo. Dico sempre che ci sono due modi di mentire. Per farlo bene devi essere Marlon Brando e siccome di Marlon Brando non ce ne sono tantissimi in giro per mentire devi essere veramente ma veramente bravo.
Se non sei Marlon Brando meglio dire la verità perché altrimenti prima o poi ti sgamano. Costruire un brand che si fonda sulla fuffa, sul nulla, è inutile.
C’è veramente indispensabile per fare bene il tuo lavoro di Brand Specialist?
La curiosità. Devi essere curioso.
Avere quella curiosità sana che ti spinge sempre ad approfondire perché se resti in superficie non ottieni nulla e a tua volta non sei interessante, non dai la possibilità alle persone di conoscerti e quindi di creare un rapporto di fiducia.
Dopodiché vengono le skill tecniche, ma quelle si imparano, mentre la curiosità non te la insegna nessuno, devi avercela.