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HR management, Solari (MISOM): “Fondamentale l’integrazione della tecnologia nei processi di gestione”

Parlare del futuro della funzione HR vuole dire confrontarsi sui cambiamenti in atto cercando di prevedere cosa succederà nei prossimi anni sulle due grandi sfide del momento: l’innovazione tecnologica e la sostenibilità.

Con la funzione HR sempre più centrale nella gestione nelle aziende di persone che hanno completamente cambiato la loro scala delle priorità, mettendo il benessere e l’equilibrio vita-lavoro prima di carriera e stipendio, ecco che chiedersi come gli HR manager debbano trasformarsi e contribuire a trasformare le aziende è la domanda principale.

Come l’innovazione tecnologica sta rivoluzionando il lavoro? Come il people management può essere sostenibile? Cosa devono fare gli HR manager per stare al passo con i tempi? Ne abbiam parlato con Luca Solari, Professore ordinario di Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi di Milano, Presidente di Fondazione UNIMI, Direttore della Scuola di Giornalismo Walter Tobagi, nonché docente della Milano School of Management, dove ha ideato due percorsi in programma nei prossimi mesi: “Strategic HR”, in partenza il 27 ottobre 2023, e “People & Culture Manager – Come gestire le Risorse Umane nel nuovo contesto”, al via il 17 novembre 2023.

In un contesto lavorativo profondamente cambiato dal 2020, cambia anche la gestione delle risorse umane. Quali sono oggi le principali sfide degli HR Manager e quali le soluzioni possibili?

Le Direzioni HRM si confrontano con sfide interne ed esterne. Tra quelle interne il recupero di una posizione più forte nel rapporto con le altre funzioni facendo leva sull’esperienza maturata durante la fase più acuta della pandemia è a mio avviso la più pressante.

I temi di interesse della direzione risorse umane sono intrecciati con i temi dell’innovazione digitale, dei sistemi ICT, della comunicazione e del marketing strategico.

Negli ultimi dieci anni la funzione si era caratterizzata in modo molto difensivo, perdendo progressivamente spazi. Il rilievo assunto quando le persone si sono trovate bloccate a casa e la generale soddisfazione per le soluzioni individuate possono rappresentare una sorta di “avviamento” positivo per reclamare un ruolo di guida.

Questa sfida interna si intreccia con quella esterna che ha a che fare con la perdita di attrattività del lavoro nelle organizzazioni. I fenomeni di perdita di engagement che vengono periodicamente rilevati dalle ricerche di Gallup si accompagnano alla difficoltà sul mercato del lavoro con tassi di turnover volontario spesso in crescita e con un maggior potere dei candidati nei processi di selezione.

 In entrambi i casi la possibile soluzione è in un processo di forte upgrade della struttura organizzativa, dei processi e delle competenze della funzione risorse umane. Servono persone più orientate all’integrazione della tecnologia nei processi di gestione.

Accanto a questo c’è bisogno di una qualità di analisi delle conseguenze delle politiche delle risorse umane che oggi manca.

Infine, serve un vero pensiero strategico che parta dalla comprensione profonda delle dinamiche di business. In fondo il Direttore Risorse Umane è parte del top management e prima di uno specialista deve comprendere appieno l’operatività della propria organizzazione.

Anche le organizzazioni si evolvono e mai come ora saper raccogliere e interpretare dati e informazioni sulle proprie persone diventa strategico. Come digitalizzazione e analitycs possono essere usati in ambito HR?

Una Direzione HR innovativa adotta un approccio evidence based. Su questa affermazione non ho alcun dubbio. Poi evidence based non vuole dire solo utilizzare i dati quantitativi, ma osservare ogni processo di decisione con una logica più affine a chi fa ricerca e sviluppo.

Si deve avere il coraggio controllato di provare una strada diversa, ma nel contempo un rigore di analisi che consenta di individuare tra tante alternative quelle che sono più promettenti.

Su questa transizione ci si devono dare obiettivi ragionevoli. Il primo e più immediato riguarda la definizione di quali ambiti di esplorazione e analisi possano essere utili nell’ambito delle diverse pratiche HR.

Mi spiego meglio. Se per la mia organizzazione l’elemento essenziale di contributo è il sourcing mentre ho turnover bassissimo è bene che ragioni su quali dati e informazioni mi potrebbero servire per capire meglio cosa impatta sull’attrazione dei candidati. Non risulta utile seguire le sirene di chi ci propone costose iniziative di implementazione di software che monitorano tutto.

Inoltre, è bene che il percorso parta dalle modalità con cui si decide e dai decisori, più che dai modelli specchiati di reporting con cui veniamo affascinati, ma che poi risultano alieni rispetto alla pratica aziendale.

Non si ha idea di quante organizzazioni abbiano implementato strumenti di reporting HR anche avanzati che non servono a nulla! Solo quando abbiamo completato questa prima fase possiamo ragionare in termini di Master data e confrontarlo con i database oggi disponibili.

Da qui il passo verso un’integrazione di un approccio evidence based è relativamente semplice. Mi lasci però dire una cosa importante. No, non serve assumere un data scientist (che non si trova) o un data analyst per i processi HR…

Secondo il recente report Gallup, solo il 5% dei lavoratori italiani si sente coinvolto nella propria attività lavorativa, come i dati possono contribuire ad aumentare l’engagement?

Le organizzazioni fanno ancora oggi un errore enorme. Raccolgono i dati, lasciano il possesso dei dati grezzi ai fornitori e si accontentano di report aggregati che usano le medie o, peggio ancora, le frequenze delle risposte positive o negative. Questo è del tutto illogico.

Senza i dati grezzi non posso testare alcune ipotesi su cosa possa aver determinato l’esito dell’analisi. Con i dati aggregati non posso fare alcun confronto anno su anno. Meglio, purtroppo, lo si fa ma dimenticando che le differenze delle medie o degli score percentuali anno su anno se non enormi sono spesso del tutto irrilevanti statisticamente.

Eppure, oltre a spendere delle cifre a mio avviso imbarazzanti per l’analisi di engagement (oggi lo si può fare velocemente e a costi davvero ridotti), spendono risorse per azioni correttive che a volte hanno un target che non esiste.

La raccolta, la conservazione nel tempo, la qualità dei dati e la loro disponibilità possono far passare da una logica al più descrittiva ad una interpretativa. Basta poco, credetemi.

Il mio primo progetto di questo tipo è del 2006 per una grande gruppo automotive. Analizzai più di 5000 schede della people review con risultati così sorprendenti che la difficoltà era per il cliente di renderli visibili al CEO. Un progetto semplice e veloce a fronte di un processo complesso e alla prova dei fatti privo di validità.

Tiene banco in questi mesi il grande tema dell’AI. Per alcuni un’opportunità per altri uno strumento che andrà a eliminare posti di lavoro sostituendosi all’uomo. Cosa ne pensa e che cosa si aspetta per il futuro?

Come sostiene uno dei grandi italiani del mondo della Computer Science, Alberto Sangiovanni-Vincentelli di Berkeley, nessuno ha una risposta a questa domanda.

Certamente ognuno di noi che abbia responsabilità deve provare ad utilizzarla per farsi un’idea. Solo facendolo si diventa consapevoli di cosa riesce a fare bene e di che cosa invece non può fare.

Se penso alla mia esperienza trovo utile per alcune mail il fatto che il mio client abbia integrato un sistema AI ma quasi tutte le risposte che genera vanno affinate secondo il mio gusto e il mio intuito specifico. Riduce i tempi ma per ora non mi sostituisce.

Se parliamo poi di AI generalista (per intenderci Chat GPT4) siamo ancora lontani da un uso professionale. Diverso è il caso per AI addestrate su basi dati specifiche e testate. In quel caso vedo delle belle opportunità.

Io stesso con un collega, Simone Gabbriellini sto sviluppando Bibmonster che utilizziamo nella ricerca. Si tratta di un modello AI che interroga delle banche dati specifiche (raccolte di articoli scientifici) e aiuta a costruire uno stato dell’arte, ovvero l’insieme degli articoli che trattano un certo tema.

Il vantaggio è che si può aggiornare velocissimamente e che consente agli autori di scegliere con un sistema che propone per ogni articolo le informazioni essenziali e consente di disambiguare eventuali errori.

Idealmente, il motore può essere utilizzato per analizzare i documenti interni di un’organizzazione (ad esempio insieme di procedure stratificate nel tempo) per risistemarli o le job description per identificare le sovrapposizioni e gli errori.

Altro grande tema di questi anni è la sostenibilità. In genere la si pensa soprattutto legata a temi ambientali, in realtà permea tutti gli aspetti dell’economia, in una visione macro, e della vita aziendale, in una visione micro. Come lo sviluppo sostenibile si declina in sostenibilità delle risorse umane in un’azienda e del mercato del lavoro in un contesto più generale? Che ruolo può avere la digitalizzazione in merito?

Grazie davvero di questa domanda che mi consente di fare riferimento al volume che ho appena pubblicato con Paolo Iacci, pubblicato dalla Collana AIDP per Franco Angeli e dal titolo “Sostenibilità e risorse umane”.

Già questa scelta editoriale chiarisce come per me si tratti di una notevole opportunità per le risorse umane. Le pressioni che derivano dall’azione politica e di regolazione in Europa e dalle dinamiche dei mercati finanziari rendono la sostenibilità un tassello essenziale della capacità competitiva di lungo periodo di ogni azienda.

Per molte di esse, questo comporterà anche un impatto diretto, ad esempio, sul costo di reperimento del capitale di prestito. Sul fronte delle persone temo un errore che vedo diffondersi che equipara il tema sostenibilità a welfare e well-being.

A mio avviso questo ambito è uno dei tre pilastri e non sempre il più importante. Gli altri due riguardano temi più squisitamente gestionali come la qualità del contesto lavorativo e la possibilità attraverso il lavoro di vedere crescere il proprio capitale umano in termini di conoscenze e competenze.

La qualità del contesto organizzativo richiede di considerare aspetti ambientali fisici così come il livello di tossicità organizzativa, intervenendo prontamente laddove le modalità di gestione non siano sostenibili.

Le conoscenze e competenze riguardano invece la crescita della persona e la costruzione di occasioni di investimento professionale. Senza questi due pilastri, welfare e well-being sono una risposta inutile, poiché si innestano sulla qualità della relazione tra persona e organizzazione che è fondamentalmente basata sugli aspetti gestionali.

In questa prospettiva, la digitalizzazione può dare un contributo importante attraverso la costruzione di modalità di accesso diretto alle persone e attraverso la costruzione di modalità di lavoro meno vincolanti di quelle tradizionali. Inoltre, può contribuire alla percezione di crescita cumulativa delle proprie competenze, così importante per le persone oggi.

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