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Marcella Loporchio, consulente del lavoro

Marcella Loporchio: “Volete essere inclusivi? Imparate a stare zitti e ascoltare”

Marcella Loporchio, business consultant trainer e consulente del lavoro, si occupa da tempo di diversity, equity e inclusion. La sua newsletter sulla diversity, “Diverdì”, nata per “scrivere qualcosa che rimanesse”, ha avuto 1000 iscritti in meno di 12 ore e nel giro di poco ha superato le 3000 iscrizioni. Segno che la sensibilità verso la diversità e l’inclusione è particolarmente forte. Con lei abbiamo parlato di linguaggio inclusivo e di Human Power.

Marcella, chi accede al tuo sito legge come prima cosa “Human Power”, che cosa intendi con questa espressione?

Lo Human Power per me è quella leva presente in ognuno di noi che però molto spesso tendiamo a non alimentare.

Il concetto di Human Power è nato ormai due anni fa, a gennaio 2020. Pensavo che il 2020 sarebbe stato l’anno più bello del mondo, ma sappiamo benissimo che anno complicato è stato. Eppure, proprio nel 2020 ho fatto mia questa espressione e ho lanciato il format Human Power Stories dove raccontavo le storie di persone che secondo me avevano lo Human Power.

Un’esperienza che mi ha permesso di conoscere tantissimi professionisti meravigliosi, alcuni dei quali ora sono i miei migliori amici.

Come sei arrivata ad essere la consulente apprezzata e conosciuta che sei ora?

La domanda è complessa. Pensa che mia madre mi diceva sempre che non sapeva che lavoro facessi, mentre mio marito racconta che oggi faccio una cosa e domani potrei tranquillamente farne un’altra.

La verità è che nel mio dna c’è tanta curiosità e anche quella che a Napoli viene detta “arteteca” (n.d.r. irrequietezza). Ho questa predisposizione innata a coinvolgere altre persone. Credo che nessuno e nessuna di noi debba fare qualcosa solo fine a se stesso. Quando creiamo delle reti stiamo costruendo delle opportunità per noi e per gli altri.

Sono nata a Salerno, trapiantata poi a Napoli, oggi vivo tra Napoli e Bari. Mi sono laureata in Scienze Politiche, ho fatto un master e dopo aver collaborato con una docente universitaria alla stesura di un libro con taglio politico, ho iniziato a lavorare come insegnante al Cepu.

Lì mi son trovata benissimo, ho fatto carriera e ho poi deciso di diventare consulente del lavoro, per poi arrivare ad aprire uno studio consulenza del lavoro, continuando però a dedicarmi anche alla formazione.

Sono da sempre onnivora di conoscenza, anche se spesso questa propensione a interessarmi di tante cose, a lanciarmi in nuovi progetti diversi fra loro, mi ha anche fatto sentire talvolta “sbagliata”.

C’è stato un punto di svolta, non tanto tempo fa. Ricordo perfettamente che era il 14 giugno 2022. Quel giorno sentivo di aver toccato il fondo a livello emotivo e mentale, mi sentivo travolta dalle emozioni. Quando ti assale questa sensazione di profondo sconforto si hanno tre possibilità: arrendersi, rassegnarsi o reagire.

Ho scelto la terza via e l’ho fatto avvalendomi della scrittura, uno strumento che da sempre mi aveva reso libera ma non mi ero mai resa conto quanto mi piacesse scrivere e quanto fosse importante per me farlo.

Quel giorno è entrato in azione lo Human Power, è arrivata la consapevolezza di voler affiancare enti e aziende pubbliche e private nei percorsi di valorizzazione delle persone, attività dove serve una forte capacità comunicativa e una speciale attenzione verso diversity, equity e inclusion.

Si parla tantissimo di linguaggio inclusivo, di schwa, ma è veramente possibile essere inclusivi quando parliamo?

No, non riusciamo ad essere inclusivi quando parliamo. E ti dirò di più: stiamo rischiando di creare un paradosso. Nel senso che stiamo così tanto focalizzandoci sui gap che penalizzano le donne che c’è chi non vuole più sentire parlare di donne.

Fra l’altro in Italia parliamo di inclusione fra uomo donna, di parità fra genere maschile del genere femminile, ma siamo indietro anni luce perché ci dimentichiamo di tante altre categorie svantaggiate.

Io credo che per avere un linguaggio inclusivo, a parte utilizzare i termini giusti, serve stare ogni tanto in silenzio perché se stai zitto e ascolti, capisci ciò che può essere offensivo per l’altro.

Tutto sta nel comprendere chi hai di fronte. Dobbiamo toglierci tutte quelle che sono le nostre idee, i nostri pensieri e preconcetti. Come dobbiamo anche imparare a chiedere scusa quando si sbaglia e dimostrare di aver capito di aver commesso un errore.

Nelle aziende questo è molto complesso. Si sta facendo tanto, ci sono dei webinar di sensibilizzazione contro le discriminazioni, contro le molestie, contro le violenze e via dicendo. Tutte iniziative utili, ma si parla sempre al femminile. Così facendo se fosse un uomo a essere discriminato è probabile che finirebbe con non denunciarlo.

Prendiamo poi la questione dell’asterisco finale o dello schwa. Certo possono aiutare il diffondersi di un linguaggio inclusivo, però è anche vero che tante persone quando vedono che si scrive con l’asterisco o lo schwa si dimostrano immediatamente infastiditi, non lo tollerano.

Allora, come prima cosa prestiamo attenzione ai termini che usiamo. Accertiamoci che non siano offensivi per le persone con cui parliamo. E ognuno di noi può sentirsi ferito da espressioni diverse.

Si stanno diffondendo delle certificazioni sull’impegno nella DEI. Secondo te sono utili e che tipo di percorso un’azienda dovrebbe fare per diventare veramente inclusiva?

E’ vero, oggi in Italia si sta diffondendo la Certificazione di parità di genere voluta dal ministero, dopo che  l’Europa ha ripreso l’Italia per essere in fondo alla classifica dei Paesi impegnati nell’attuare una vera politica di parità di genere e con le donne che guadagnano meno degli uomini.

Anche questa certificazione di parità di genere si focalizza purtroppo però solo su uomini e donne, dimenticandosi di chi non si riconosce in un orientamento binario e resta secondo me limitata.

Considera che esiste una certificazione europea che comprende tutto ciò che riguarda l’inclusione e la parità, dal mondo delle disabilità a quello LGBTQ+, analizzando tutte le azioni pratiche introdotte in ambito DEI.

Il cambiamento avviene innanzitutto da politiche serie all’interno dell’azienda che vadano a rispondere ai bisogni dei dipendenti che non è detto che siano i permessi di paternità o la conciliazione dei tempi vita-lavoro.

Quindi se le aziende vogliono intraprendere un percorso per essere veramente inclusive, la prima cosa che suggerisco di fare è una survey all’interno dell’azienda sulla percezione dell’inclusività e su quello che vogliono i dipendenti e le dipendenti, quello che sentono che manca e da lì iniziare a lavorare.

Insomma, se vuoi essere inclusivo comincia dall’ascolto.

Inclusione vuol dire che ognuno trova il proprio posto e si sente perfettamente rappresentato nella realtà in cui opera. Se le aziende vogliono includere devono accorgersi e accogliere i bisogni delle persone, fornendo delle soluzioni.

Questi i tuoi suggerimenti alle imprese, invece alle persone che si sentono escluse nell’azienda in cui lavorano cosa ti senti di consigliare?

Di non aver paura di parlare perché uno dei mali maggiori che si registra nelle aziende è il malessere non espresso.

Spesso tutto nasce da incomprensioni, da un chiacchiericcio, da situazioni che si vivono con paura. Bisogna prendersi la responsabilità di parlare di ciò che fa star male, del fatto che non ci si sente valorizzati, verificando se effettivamente sia così.

E quando si decide di affrontare la questione, è importante organizzare il discorso, spiegando con chiarezza come mai le attese sono state deluse. Pensavamo di meritarci una promozione assegnata a un’altra persona? Bene, portiamo dei numeri, presentiamo quanto fatto e i risultati ottenuti, ma prima ancora chiediamoci se ci siamo mai proposti per quella posizione perché è molto più facile accusare gli altri invece di fare un esame interno e chiedersi se si poteva fare di più per avere quella promozione.

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