Smart working, flessibilità, stipendio, benefit aziendali: sui social e sui media tradizionali, sono in molti a puntare il dito contro aziende e imprenditori che sfruttano e bistrattano i propri collaboratori. Ma sono davvero così cattivi questi datori di lavoro?
Ultimamente mi capita di aprire LinkedIn e di trovarmi di fronte a post e articoli che parlano di come sta evolvendo il mondo del lavoro, ma soprattutto di come stanno cambiando i rapporti professionali tra aziende e i collaboratori.
Entrando nel merito, ho notato che ci sono diversi contenuti (ho preso l’esempio di LinkedIn, ma il discorso vale per qualsiasi altro media o mezzo d’informazione) sarcastici, polemici, talvolta anche invettivi, in cui si punta il dito contro imprenditori e datori di lavoro rimasti, per così dire, ancorati al passato, ad un vecchio modo di fare impresa. Incapaci di comprendere le necessità dei propri lavoratori, se non addirittura di approfittarsene e sfruttarli.
Delle teste di c***o insomma.
Lavoratori sottopagati, costretti a fare straordinari su straordinari, discriminati e vessati, che non possono chiedere una giornata di ferie o lavorare comodamente da casa. Uno scenario da incubo, una realtà opprimente, che probabilmente descrive alcuni posti di lavoro, ma di certo non tutti, e che riporta la voce di una sola campana, quella dei lavoratori dipendenti.
Premetto per non essere frainteso.
In genere sono pienamente favorevole ai cambiamenti e, in questo specifico caso, a come sta cambiando il mondo del lavoro.
Sì, sono d’accordo con la tesi che “un lavoratore felice è un lavoratore che lavora bene e meglio“. I dati lo dimostrano.
E sì, ogni persona dev’essere retribuita in modo adeguato rispetto alle competenze e alle mansioni svolte.
E ancora, mi distacco dalla visione del lavoro che avevano in nostri “padri”, che negli anni ’70-’80-’90, in pieno boom economico, hanno sacrificato la propria vita, lavorando 12 ore al giorno, quando il termine “flessibilità” manco esisteva nel vocabolario.
Quindi ben venga lo smart working, le iniziative di welfare e la sopracitata flessibilità. E credo di non essere l’unico imprenditore a pensarla così, senza doverlo urlare per forza ai quattro venti. Per questo motivo, ciò che leggo a volte mi lascia davvero perplesso.
Ognuno nel mondo del lavoro ha il suo ruolo e le sue responsabilità. E, sinceramente, penso ci siano “cattivi” datori di lavoro come “cattivi” dipendenti.
Nel mondo del lavoro esistono i diritti, ma anche i doveri.
Di tanto in tanto, ad esempio, vorrei sentir parlare anche di assenteismo, una piaga che affligge moltissime realtà imprenditoriali. Di lavoratori che si danno per malati o approfittano della buona fede dei propri “capi” per svolgere una seconda attività in nero. Di chi dovrebbe assistere la mamma o il papà ammalati e poi li trovi in giro a fare jogging o al supermercato.
Mi piacerebbe sentir parlare di dipendenti che, nonostante i buoni rapporti con colleghi e titolari, si licenziano senza preavviso lasciando l’azienda in difficoltà o abbandonano a metà i progetti sui quali l’azienda ha investito tempo e denaro.
A volte mi piacerebbe sentire la voce di chi ha una piccola attività e guadagna tanto quanto i propri collaboratori (pagati puntualmente), lavorando molte più ore e senza beneficiare di TFR, tredicesima e quant’altro.
Scelte di vita, mi direte voi. Sicuramente, ma è una scelta di vita anche fare il dipendente (o il collaboratore come dir si voglia).
Ognuno al proprio posto. A ognuno oneri e onori.
Vogliamo davvero cambiare il mondo del lavoro?
Assumiamoci le nostre responsabilità.
Noi imprenditori (uso il “noi” perché faccio parte di questa categoria) e noi dipendenti (uso sempre il “noi” perché in passato lo sono stato anch’io).