Insulti e minacce non bastano a licenziare un lavoratore. Secondo la Cassazione una condotta riprovevole non giustifica un provvedimento così grave.
Un dipendente di un’importante casa automobilistica è stato licenziato per aver insultato e minacciato una sua collega.
Per il datore di lavoro era venuta meno la fiducia alla base del rapporto. Non è stata però dello stesso avviso la Corte di Cassazione, che ha invece ritenuto illegittimo il licenziamento.
La decisione della Corte di Cassazione
L’uomo, che nel 2018 aveva spinto e offeso una collega durante l’orario di lavoro, era stato licenziato dall’azienda per aver posto in essere azioni contrarie alla civile convivenza.
Ritenendo illegittimo il licenziamento, il lavoratore ha deciso di fare causa alla società per far valere i propri diritti.
In prima istanza il Tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento. Ciononostante al lavoratore è stato disposto solamente un risarcimento in denaro e non il reintegro perché le sue azioni sono state ritenute in aperto contrasto con le norme comportamentali dell’azienda.
La Corte di Appello ha confermato la sentenza di primo grado, non discostandosi da quanto deciso dal giudice.
Il dipendente ha dunque fatto ricorso in Cassazione che, a sei anni dal licenziamento, ha ribaltato la decisione del Tribunale.
Con l’ordinanza n. 38877 del 7 dicembre 2021 la Suprema Corte ha così stabilito l’illegittimità del licenziamento per comportamento ingiurioso, disponendo un risarcimento per i pagamenti arretrati e il relativo reintegro al suo vecchio posto di lavoro.
Insulti e minacce non giustificano il licenziamento
Il comportamento del lavoratore, per quanto grave, non giustifica la decisione presa dal datore di lavoro.
La condotta ingiuriosa non fa venir meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e il suo dipendente, e non costituisce reato. Rappresenta però un importante precedente per la giurisprudenza futura.
La sanzione inflitta all’uomo viene considerata dunque sproporzionata rispetto alle azioni compiute.