Cosa potrebbe succedere se, oltre alle nostre competenze, potessimo portare anche la nostra vulnerabilità sul lavoro e se non fosse più motivo di imbarazzo mostrare le proprie fragilità in ufficio? In tempi di grande incertezza come quelli attuali, le emozioni non possono più restare nascoste. Le realtà più lungimiranti lo hanno capito e le stanno valorizzando, consapevoli che se correttamente usate, possono diventare una preziosa risorsa.
Vulnerabilità: ostacolo o risorsa sul lavoro?
Segni particolari: vulnerabile. Chi avrebbe mai il coraggio di indicare fra le proprie skill la vulnerabilità nel proprio CV? Nessuno. Le debolezze devono essere lasciate fuori dall’ufficio. Sul lavoro l’emotività è più un problema che una risorsa. O forse no. O meglio, forse qualcosa sta cambiando.
Lo spiega bene Biancamaria Cavallini, psicologa del lavoro, responsabile scientifica, consigliera d’amministrazione e direttrice operativa di Mindwork, nel suo libro Vulnerabilità (FrancoAngeli).
“Negli ultimi anni – si legge nel volume – è in corso un cambiamento culturale che spinge verso una considerazione della persona a 360 gradi e fa del dipendente un concetto démodé. Con la conseguenza che, se ieri la vulnerabilità non trovava spazio in virtù di una cultura del lavoro che guardava al dipendente ed escludeva dall’equazione la persona che vi sta dietro (e dentro), oggi chiede di veder riconosciuto il suo posto proprio in virtù di un cambio di prospettiva, che porta la soggettività in primo piano”.
Se si vuole davvero favorire l’espressione della vulnerabilità e potenziare il benessere psicologico (e non solo) della propria azienda, spiega Cavallini, è imprescindibile che emozioni, vissuti e bisogni trovino il modo di manifestarsi.
Del resto, preoccupazioni, ansie e angosce finiscono inevitabilmente per riversarsi sul lavoro. Lo sappiamo bene tutti. E’ successo a chiunque di dover lavorare in un momento di difficoltà emotiva. Perché allora far finta che non esistano le emozioni o lasciarle fuori dalla porta? L’interiorità è entrata in ufficio, le aziende deve necessariamente farci i conti. Anzi, sono chiamate, sostiene Cavallini, ad accoglierla e valorizzarla. Ma come riuscire a farlo? Ne abbiamo parlato con l’autrice.
Il concetto di vulnerabilità sembra essere qualcosa di diametralmente opposto rispetto a quello che cerca il mercato del lavoro. Come, invece, può essere una risorsa?
In effetti è qualcosa di diametralmente opposto rispetto a quello che cerca il mercato del lavoro. Solamente, però, se ci si ferma alla sua definizione più comune o immediata. Cercando “vulnerabilità” sul dizionario, si viene rimandati a “fragilità” e “debolezza”. In questa accezione, la vulnerabilità è molto distante dal mondo del lavoro. Eppure, se si scava più a fondo, si scopre che mostrarsi vulnerabili significa esporsi e che esporsi significa uscire dalla propria zona di comfort, compiere un atto di coraggio, fronteggiare il rischio e l’incertezza, aprirsi emotivamente. E iniziamo a intuire che forse mostrarsi vulnerabili ha i suoi vantaggi.
Se si chiede alle persone cosa significhi per loro “vulnerabilità al lavoro”, vengono quasi sempre richiamate situazioni come: commettere un errore, condividere le proprie emozioni, esprimere disaccordo.
Ecco allora che vulnerabilità in azienda significa promuovere un ambiente organizzativo in cui sì impara – commettere errori serve ben a questo – costruire relazioni lavorative che funzionano – condividere le emozioni è essenziale per farlo – e, in definitiva, crescere – esprimere disaccordo vuol dire portare nuove idee e soluzioni.
Dunque, la vulnerabilità può essere forza. Tutto dipende da come la si utilizza. E parlo di “utilizzo” non a caso, perché la vulnerabilità può farsi strumento a vantaggio del singolo e dell’organizzazione. E come ogni strumento, è importante imparare a usarla, saperla dosare, perché vulnerabilità senza limiti non è vulnerabilità. E diventa per di più controproducente, questa volta sì.
C’è una certa vergogna nel mostrarsi vulnerabili sul lavoro (e non solo). Superare questo senso di imbarazzo è possibile? Come?
È importante distinguere l’imbarazzo dalla vergogna. Il primo è sempre sociale, nasce a contatto con l’altro. La vergogna, invece, può coglierci anche nella solitudine. Questa distinzione è essenziale perché ci fa intuire che la vergogna è una emozione auto valutativa. Ci vergogniamo di mostrarci vulnerabili perché per primi non accettiamo la nostra vulnerabilità. Diventa pertanto essenziale imparare a conoscerla ed entrarci in contatto. Per poi riconoscerla e cogliere i momenti in cui sentiamo quel nodo allo stomaco che arriva nel momento in cui stiamo per dire qualcosa di cui – appunto – ci vergogniamo.
Il lavoro su di sé è fondamentale. Si può cominciare per piccoli passi, con piccoli atti di coraggio che ci permettono di uscire in punta di piedi dalla nostra zona di comfort, scegliendo situazioni (e relazioni) sicure in cui esporsi. Il proprio luogo di lavoro non è mai consigliabile come primo campo di prova, ma ci si può arrivare. Può diventare l’obiettivo, nell’idea che mostrarsi vulnerabili – come anticipato – diventa un investimento in termini di clima, relazioni, crescita e innovazione.
La vulnerabilità è necessaria allo sviluppo aziendale? E come dovrebbe essere gestita all’interno di un’organizzazione e di un team di lavoro?
Lo è. Non c’è crescita se si sta nella zona di comfort. Che questa sia individuale, di team oppure organizzativa. La vulnerabilità è una strada per uscirne. Non certo l’unica, ma forse quella che più connette a se stessi. Quindi, a mio avviso, quella da percorrere.
Tuttavia, come anticipato, la vulnerabilità va dosata. Specialmente al lavoro. Abbiamo bisogno di persone vulnerabili nella misura in cui sono in grado di “usare” la vulnerabilità come strumento per connettersi con i colleghi, creare intimità emotiva, favorire comunicazione e coesione e promuove una cultura del feedback. Una competenza non da tutti. Anzi, estremamente complessa da far propria. Ecco perché in primis è necessario formare le persone all’utilizzo della vulnerabilità.
Fatto ciò, è essenziale circoscrivere la vulnerabilità: servono setting adeguati. Non ci si può mostrare vulnerabili senza aver creato le condizioni affinché tale vulnerabilità sia accolta. Servono momenti informali, ma codificati, di condivisione, in cui si possa parlare degli aspetti relazionali ed emotivi. Momenti come questi – che io chiamo stand up meeting relazionali – sono pressoché assenti nelle organizzazioni. Eppure sono potentissimi strumenti a favore dei manager per far star bene – e soprattutto far lavorare bene – il team.
In una società orientata alla performance, i ruoli di leadership vengono per lo più ricoperti da persone risolute. C’è spazio per i vulnerabili nelle posizioni di comando?
Ho in qualche modo anticipato la risposta a questa domanda, ma molto c’è ancora da dire. In potenziale sì, c’è spazio per i vulnerabili nelle posizioni di comando, ma ci stiamo ancora lavorando.
Faccio un parallelismo con il maschile/femminile nell’esercizio della leadership. Tutt’oggi prevale uno stile di gestione orientato a modelli maschili che si fondano su principi quali risolutezza e pragmatismo. I modelli femminili, dove prevale l’ascolto e la cura, vengono spesso percepiti come poco efficaci. La questione della vulnerabilità si pone in questa dialettica. Senz’altro femminile, ha bisogno del suo contro altare per essere efficace. E questo vale anche a livello macroscopico: abbiamo bisogno di una sintesi tra maschile e femminile. Possibile solamente se saremo in grado di comprendere che investire nella cura – e quindi nel benessere – delle persone significa investire nella loro performance. Mentre il contrario non è possibile: investire nella performance non permette di investire contemporaneamente nello stare bene. Anzi.
E a questo punto viene spontanea una provocazione: abbiamo bisogno di leader vulnerabili?
Ne abbiamo bisogno nella misura in cui sono in grado di dosare la loro vulnerabilità. Ci sono due ingredienti essenziali affinché la vulnerabilità funzioni per la leadership: autoconsapevolezza e senso del limite. È necessario conoscersi a fondo, entrare in contatto con le proprie parti vulnerabili se si vuole mettere a sistema la vulnerabilità. Parallelamente, per farlo, è mandatario il limite. Sapere quando esporsi, quando fermarsi, come farlo. La vulnerabilità ha bisogno di regole. Senza, è puro – e contro producente – esercizio di stile. Appare dunque evidente che, anche – e specialmente – nel caso di manager e responsabili, sia necessaria un’adeguata formazione sul tema.